Era il 26 Luglio 2012 quando Mario Draghi in una conferenza a Londra di fronte ad un pubblico di investitori pronunciò le famose tre parole che hanno cambiato il corso d'azione della politica monetaria in Europa e creato un’ancora di salvezza per diversi paesi nei difficili momenti della crisi dell’eurozona.

Dieci anni dopo, la fine di Luglio gli ha riservato un trattamento molto diverso. Oltre ad esser stato sfiduciato da tre partiti della sua coalizione di governo (5SM, Lega e Forza Italia), pure la nuova leadership della BCE lo ha figurativamente mandato in pensione cambiando drasticamente quelle policy su cui Draghi aveva costruito la politica monetaria d’Europa. Finiscono infatti sia il quantitative easing che il regime a tassi negativi, con la BCE che ha aumentato il tasso di interesse di mezzo punto.

Dieci anni dopo, l'Europa è appena uscita da due anni di una devastante pandemia, ha grandi ripercussioni dovute all’invasione russa in Ucraina in settori chiave come l'energia, la difesa, i trasporti e l’industria alimentare.

Un'esperienza di pre-morte per la moneta unica

«Nell'ambito del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto il necessario per preservare l'euro. E credetemi, basterà», disse dieci anni fa Mario Draghi. Per comprendere il vero significato di quest’affermazione e della svolta che ha comportato, occorre comprendere che la moneta unica era in serio pericolo di vita a causa sia di una fallace struttura dell’unione economica e monetaria, sia di decisioni sbagliate nella gestione della crisi.

Nei mercati finanziari, c'erano state speculazioni sulla possibile disintegrazione della moneta unica e sul default di diversi paesi europei. I tassi di interesse sui titoli di Stato avevano raggiunto circa il 7% in Italia, Francia e Spagna, il 15% in Irlanda, Portogallo e Cipro e avevano superato il 35% in Grecia. L'UE non fu in grado di affrontare la crisi da sola e l'intervento del Fondo Monetario Internazionale e dei conseguenti programmi di austerità spinsero l'eurozona nel circolo vizioso della recessione, e creando malcontento ed euroscetticismo su larga scala.

All'inizio, per molti, sembrava una "crisi greca", ma dopo il crollo del settore bancario in Irlanda e Spagna, dopo il quasi fallimento del Portogallo divenne chiaro che si trattava di una crisi sistemica. Fu in quel periodo che partirono i lavori per il Rapporto dei Quattro Presidenti (Consiglio, Commissione, Eurogroup e BCE), un documento politico che ha rappresentato un momento di verità, con assai poche ambiguità riguardo alla vulnerabilità della nostra unione monetaria; un’agenda politica di trasformazione della governance europea iniziata, ma mai portata a termine.

Chiedere l’impossibile alla politica monetaria

La famosa frase di Draghi fu sufficiente per tranquillizzare i mercati e segnalare agli speculatori che era inutile scommettere sulla stabilità dell'eurozona; ma non s ideve pensare che fossero solo parole. In quell’estate di dieci anni fa, la BCE sviluppò piani concreti per acquistare nei mercati secondari le obbligazioni dei governi nazionali attraverso il rogramma Outright Monetary Transactions (OMT). A differenza del precedente Securities Market Programme, Draghi aveva delineato un supporto potenzialmente senza limiti nè di tempo nè di dimensioni; un programma inteso a «salvaguardare un'adeguata trasmissione della politica monetaria e l'unicità della politica monetaria», afferma la BCE.

Altre due politiche attuate prima e dopo il momento del "whatever it takes" la dicono lunga sulla capacità di Draghi e della BCE di sostanziare un obiettivo chiaro - preservare l'euro - con soluzioni solide e innovative. Una è il Lont Term Refinancing Operations (LTRO) che ha preso il via all'inizio del 2012 offrendo prestiti treiennali all’1% alle banche che hanno bisogno di credito, con governi e cittadini che ne hanno beneficiato indirettamente grazie ad una maggiore capacità di prestito delle banche. L’altra è il quantitative easing che dal 2015 al 2021 ha raggiunto quasi 2950 miliardi di euro immessi nell’economia.

Tutto questo per ricordare che la politica monetaria ha dovuto assumersi responsabilità enormi in quest’ultima decade, soprattutto per sopperire alla mancanza di una vera politica fiscale comune europea. Draghi ha dovuto stirare al massimo i poteri della BCE per salvare l'euro, ma ha anche dimostrato che la politica monetaria non può essere l'unico strumento di politica macroeconomica in Europa, soprattutto in tempi di forte deflazione.

Aspettando un upgrade della governance economica

Nonostante gli insegnamenti della crisi del 2012, molto poco è cambiato nella governance economica dell'UE, in particolare riguardo alle politiche fiscali. Ora esiste una linea di credito per evitare il default, il MES, ma ancora non è parte del diritto comunitario. Esiste il NextGenEU per rilanciare la ripresa post-COVID-19, ma trattasi di uno strumento di natura temporanea. Stesso discorso per il SURE, che ha contribuito a sostenere i redditi nel culmine della crisi ma non è diventato un meccanismo automatico per proteggere partite iva e dipendenti in caso di ulteriori shock. Finora non è stata creata una capacità di bilancio comune per l'area dell'euro. Abbiamo assistito alla creazione di un'Unione Bancaria, la cui importanza non va sottovalutata, ma anche lì, solo due terzi del piano iniziale sono stati attuati e ci sono ancora barriere politiche per la realizzazione di una garanzia europea dei depositi per i piccoli risparmiatori.

Quando la pandemia di Covid-19 ha colpito, l'UE ha rapidamente compiuto due passi importanti per il consolidamento dell'UEM. Ha accantonato l'insieme delle regole di bilancio grazie alla clausola di salvaguardia del Patto di stabilità e crescita e ha introdotto prestiti congiunti per il dispositivo per la ripresa e la resilienza che ha quasi raddoppiato la capacità di bilancio dell'UE e costretto gli Stati membri a guardare alla propria strategia di sviluppo e investimento in modo sostenibile.

Un commento praticamente unamime alla gestione della crisi pandemica, rispetto a quella del 2010-2012, è che la risposta dell’UE è stata rapida e solida. E’ indubbio che l'UE abbia imbeccato la via del recovery in appena due mesi ma quello che è stato creato è temporaneo, mentre l'UEM avrebbe bisogno di soluzioni permanente per eliminare definitivamente la vulnerabilità dell’unione monetaria.

In secondo luogo, la portata rimane troppo piccola. Il NextGenEU è un inizio, ma per rispondere a tutte le aspettative e ai bisogni (difesa, cibo, energia, sicurezza, clima, digitale, posti di lavoro) si dovrebbero cosiderare capacità molto maggiori, sempre che si considerino questi bisogni come come beni pubblici europei. In terzo luogo, sono necessari nuovi strumenti comuni per dotare l'UEM e l'UE di un'adeguata funzione anticiclica, al di là degli strumenti per l’investimento di medio e lungo termine.

La Commissione Europea è attiva al riguardo ma se i leader europei a livello del Consiglio non capiscono che c’è da agire ora, prima della prossima crisi, la governance economica europea rimarrà sempre più un agglomerato di toppe e misure temporanee, invece di una coesa struttura, solida anche durante le recessioni.

Draghi out, per l'Italia e per l'Europa

Quando nel 2021, nel mezzo della pandemia l'Italia si è trovata in una grave crisi politica interna, con il suo passato da leader europeo Mario Draghi è stato una scelta quasi naturale per guidare un governo di unità nazionale fino alla fine della legislatura. La sua missione era chiara e temporanea. Con la legge di bilancio da emanare in autunno e 55 obiettivi politici da raggiungere entro dicembre per mantenere l'accesso all’RRF, la mossa del 5SM sembra quantomeno irresponsabile.

Mentre è inutile cercare di spiegare perché il 5SM, seguito da Lega e Forza Italia, non ha potuto aspettare altri 6-8 mesi per andare ad elezioni, ci preme sottolineare che la caduta di questo governo va anche a scapito di una potenziale riforma dell'UEM.

Senza Draghi al timone, l'Italia e gli altri capi di stato pro-integrazione troveranno più difficile convincere i cosiddetti frugali della necessità di lavorare insieme verso una capacità fiscale comune, verso misure anticicliche europee e altre politiche che potrebbero prevenire le divergenze. All'Europa mancherà una voce forte e consapevole delle debolezze dell'attuale quadro di governance economica. Draghi avrebbe potuto aiutare a ridisegnare il quadro fiscale dopo aver magistralmente reinterpretato quello monetario, partendo da tre semplici parole a cui ha dato molto significato.

(László Andor – già Commissario europeo per l'occupazione, gli affari sociali e l'integrazione, David Rinaldi – Director of Studies and Policy Foundation for european progressive studies)

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